mercoledì 26 giugno 2013

Breve accenno a Catone il censore e il suo pronipote Catone uticense e antichi quanto insospettati rimedi terapeutici


Catone il Censore nasce a Tuscolo nel 234 a.C.
Uomo integerrimo ma freddamente sanguinario, non propriamente un perfetto esempio di Pietas, anzi, celeberrime sono le sue feroci repressioni sulle genti che non accettavano di sottomettersi al giogo romano.
Per lui la donna era un essere assolutamente inferiore, la moglie praticamente una schiava, sostanzialmente la sua "etica" di guerra fondava sulla presunta superiorità morale dell'aggressore (i romani) contro l'immoralità delle vittime (tutti coloro che non erano romani).
Nel 194, per fare solo un esempio, assoggettando la Spagna massacrandone numerose genti si guadagna fama di uomo spietato e inflessibile, tornato a Roma diviene Censore, celeberrima è la sua ostinata esortazione a distruggere Cartagine.
Plutarco biasima (a ragione) la sua indifferenza verso le sorti di schiavi o animali nel momento in cui non servivano più allo scopo, e ancora scrive che Catone aveva in sospetto non solo i filosofi greci, considerati oziosi con i loro ricercati ragionamenti, ma che anche verso i medici nutriva un senso di forte diffidenza. Egli stesso si attenne a precetti semplici e fondamentali d’igiene e terapeutica conservativa del generale stato di salute della persona. Norme valide ieri come oggi, se non intervenisse la predestinazione di ognuno o l’ingerenza di fattori inquinanti a determinare l’instabilità della salute.
In uno dei frammenti rimasti dei sui Praecepta ad filium scriveva: “ Dirò, o Marco, di questi Greci a suo luogo quel che ne ho studiato in Atene, e perché sia buona cosa conoscere le loro scienze, ma non approfondircisi…finché questa gente continuerà a comunicarci il suo sapere, guasterà tutto; e peggio ancora se ci manderà qui i suoi medici. Han giurato tra loro di sterminare, a forza di medicina, tutti i barbari; e si fanno anche pagare, perché la gente se ne fidi e sia più facile mandarla in malora…”
Se ci fossero pervenuti per intero tutti gli scritti di Catone che, a quanto sembra, comprendevano anche un trattato di medicina, potremmo conoscere ed apprezzare meglio la sua opera di medico allo stesso modo che conosciamo l’opera sua di soldato, di uomo politico e di agricoltore.
Sappiamo che per vivere sani consigliava di nutrirsi prevalentemente di erbaggi e con moderate porzioni di carni d’anatra e di colombi o lepre, perché leggere e con tale regime egli si vantava di aver ristabilito la salute negli infermi e conservato la sua fino all’età più tarda: all'età di 80 guidò vittoriosamente schiere a cavallo, a 90 sostenne con mente estremamente lucida la sua ultima causa nel Foro.
In particolar modo nel cavolo riconobbe svariate virtù terapeutiche. Interessanti annotazioni si trovano nel capitolo CLVI del trattato dell’Agricoltura, dove scrive che questa pianta aiuta la digestione: “il cavolo è di tutti gli erbaggi il migliore: puoi mangiarlo cotto e crudo: se lo mangi crudo inzuppato nell’aceto è meraviglioso per digerire. Scioglie il ventre e l’orina, è giovevole per tutti i mali.
Se in un convito tu voglia bere molto e mangiare senza preoccupazioni, mangia prima della cena cavolo quanto ti piaccia, con aceto; e dopo la cena mangiane quattro o cinque foglie: ti farà come se non avessi mangiato nulla, e potrai bere quanto ti parrà".
Per il benessere delle articolazioni consigliava di mangiarlo crudo alla mattina.
“…non solo; metti in serbo l’orina di chi l’avrà mangiato, riscaldala e mettici dentro il malato, con questa cura presto guarirà: è provato. E così se in quell’orina laverai i bambini, non saranno mai deboli: e se alcuno non vegga chiaro, si bagni gli occhi con quell’orina, e vedrà meglio; se dolga il capo o le cervici, si lavi con quell’orina calda e cesserà di dolere...”
Certamente questi sono rimedi che mal si adattano agli appartamenti domestici delle metropoli contemporanee, che mal si adattano ai prodotti delle coltivazioni intensive impoveriti di vitamine e Sali minerali, a ogni modo possiamo considerare questa testimonianza come degna di fede.  
Vissuto fra il 96 e il 45 a.C., Catone pronipote dell’altro e distinto da questo con l’epiteto di Uticense, scelse il suicidio a Utica, piuttosto che rinunciare alla libertà politica che ormai Cesare gli avrebbe definitivamente sottratto, in particolare a chi, come lui, era Pompeiano.
Nel 72 a.C. combatté contro Spartaco. Seguì, poi, il normale “cursus honorum” senatorio raggiungendo la pretura.
Nel 67 fu legato di Pompeo nella guerra contro i pirati; ebbe la questura nel 65 e fu tribuno della plebe nel 63, anno in cui avvenne la famosa “congiura di Catilina”. Nell’occasione Catone, al fianco del console Marco Tullio Cicerone, fu il più autorevole sostenitore della fermezza del Senato nei confronti dei congiurati chiedendo e ottenendo la pena di morte per i catilinari. L’Uticense fu, poi, il solo a non abbandonare l’oratore quando nel 58 fu costretto a lasciare Roma in virtù di una legge che condannava all’esilio chi avesse fatto uccidere un cittadino romano senza la sanzione del popolo.
Nel 54 fu eletto pretore. Cicerone e Plinio il Vecchio, in periodi diversi, c’informano che in quell’anno, poiché i comizi elettorali erano viziati da sospetti di brogli, le parti in causa decisero di depositare le cauzioni nelle mani di Catone, ritenendolo, evidentemente, una persona sopra ogni sospetto.
L’episodio, ancora una volta, ci dimostra che Catone era ritenuto da tutti un esempio di rigore morale, di correttezza politica e onestà in tutti i sensi.
Catone è definito da Cicerone come eccezionale. Egli diventa il modello della fermezza stoica spinta fino al sacrificio di sé, a Seneca, infatti, “piace ammirare l’invincibile fermezza di un uomo incrollabile nella rovina generale” e per lui la morte di Catone è vista come l’attimo in cui la libertà esala l’ultimo respiro. Virgilio, lo immagina custode dei Campi Elisi e Lucano, nella sua Pharsalia, pone l'accento sull’integrità morale e sulla valorosa fedeltà di Catone ad un ideale di libertà politica difesa fino alla morte e, addirittura, attraverso essa Dante lo vorrà come il custode del Purgatorio, trovando nell’uticense una parziale autoidentificazione, come uomo esule alla ricerca della libertà ideale di cui era stato anch’egli privato con l’esilio da Firenze.
Con l'aiuto di Catone, Dante sarà mondato dalle ultime scorie plumbee del suo passaggio infero. Virgilio avrà il compito di sottoporre il Poeta a un rito di purificazione cingendolo con un giunco, pianta simbolica che potrà togliergli dal viso, per le sue virtù emblematiche, i segni lasciati dall’oscura discesa.
I giunchi crescono sulla riva dell’isola del Purgatorio, senza nodi, testimoniano la duttile vitalità priva di vincoli, metafora di semplicità assecondano con il loro moto quello delle onde, che, sommergendoli, l’incurvano. I giunchi, emblemi della sopportazione forte e umile, subiscono cedevolmente l’incessante fluttuazione che il gorgo del tempo imprime alle correnti del divenire.
«e canterò di quel secondo regno / dove l'umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno»,
«Ma qui la morta poesì resurga, /o sante Muse»
E’ “il risorgere” cui si tende, e senza questa intima tensione “d’iniziatica speranza” non si può affermare di vivere pur esistendo. Riemergere dal buio della materia alla luce sovramateriale. Nella voragine infera non potremmo forse riconoscere l’atroce contraddizione esistenziale dell’uomo stesso? Prodigiosamente rigurgitato dal profondo del proprio baratro ontologico come la creatura più tragica e splendida dell’universo.


martedì 2 aprile 2013

La rivelazione di Ascanio nel VI libro dell'Eneide (frammento)



E’ evidente che non occorre un appariscente supporto rituale per cercare di adeguare la condotta esistenziale ispirandosi alle norme del buon senso stoico-neoplatonico, bensì, invece, è necessario trasfondere nel proprio agire il significato di una condotta modesta e dignitosa, confidante della comunanza ideale con determinate forze luminose operanti nel Cosmo e variamente definite presso ogni civiltà tradizionale con i più diversi nomi, qui da noi, Muse divine, oppure le Intelligibili emanazioni del Nous divino.

L’esistenza è un’opera di fortificazione interiore, è quotidiana preparazione alla morte. Possiamo sottrarci a questo primo significato inseguendo molteplici distrazioni ma non per questo miglioreremo la nostra condizione spirituale.

La divinità, rammenta Seneca, non cerca servitori ma anime leali al bene cerca, assonanze sincere all’ispirazione promanante dal nucleo sorgivo della vita.

“Fin dall’origine un intimo spirito compenetra il cielo, la terra e il mare, e il globo luminoso della luna e il sole, e un’anima infusa per gli arti sollecita la materia unendosi al grande corpo”
(Eneide libro VI)

La poesia è specchio di ciò che all’intuizione dell’anima è anteriore e superiore.

L’anima, è metaforicamente luna, colpita dal raggio di sole, che è lo spirito, risplende di luce solare e avviene così che le tenebre della comune esistenza sono interrotte da lampeggiamenti improvvisi, quasi di folgore che una volta tornata l’oscurità rimarrà in segno d’impronta visiva, quale fosforescente traccia profetica e poetica amplificante il principio igneo dell’esistenza congiunta alle forme del divenire.