martedì 18 settembre 2012

Lo spirito di Giacomo Boni (1859 - 1925)


Restituì una profondità tangibile all’epica antichità di Roma, riportò alla luce il Lapis Niger posto sotto la più nobile arteria dell’Urbe, cosa si può dire sfuggendo ad ogni retorica dell’uomo Giacomo Boni, in lui lo studioso era subordinato al Veggente, una qualità assolutamente rara in età moderna.

Là dove tutto pareva scoperto (il Foro romano) riapparvero vestigia commoventi di vita semplice.
Fra molte statuine greche tornate in luce dai pozzi, un giorno Boni trascelse un bucchero nero graffito da mano inesperta e lo mostrava agli amici dicendo: “Che sia l’opera d’una piccola Vestale?”
Riapparvero le bianche pareti dipinte a sottili tralci bruni, e i pavimenti a tessere marmoree, premuti un giorno “dalle perfettissime donne sbocciate appena o maestose per fiorente calma bellezza”.
In una stanza con due forni rimanevano ceneri dell’ultimo fuoco e frammenti fittili che Boni identificava coi “Vasa Numae”.
Altri vasetti rituali erano spalmati di pece, che, arsa, spandeva ancora aroma di pino.
Un frammento di focaccia abbrustolita, a forma di zattera, rievocò a Boni lo janual sacrificale, che Catone voleva offerto al sempiterno principio di ogni umana ideazione.

Cosi scrisse rievocando quella scoperta: “Nello scoprire il forno della Casa delle Vestali e nel trovarvi tanto vasellame rituale la cui tradizione varca i confini della civiltà latina, ho sentito istintivamente che non avevo a che fare con un semplice forno da pane”.

Un giorno, sorpreso nel Foro da un gran temporale, si rifugiò nella Domus.
La pioggia fischiava a liste nell’aria, con la forza sonora e disperata dei brevi acquazzoni romani.
Lampi pallidi tagliavano la piccola spelonca dove Boni sostava, ardendo in cuor suo di essere travolto da quella bufera e di perdersi negli elementi, in una comunicazione suprema col Divino.
“Ho gustato la morte” disse a chi lo vide balzar fuori, grondante come la figura del Temporale nella colonna Aureliana.

Il suo animo era ancestralmente congiunto al sentimento della vita arcaica: un Genio prenatale presiedeva al suo destino umano.
L’intuizione felice gli fece scoprire le più antiche sepolture dei primitivi abitatori del Colle Palatino, in cui erano deposte semplicissime suppellettili cariche di valenza rituale e che solo l’animo sensitivo può cogliere in tutta la loro radianza poetica e magica.
Fra gli inumati v’erano dei bambini piamente composti in bare di quercia. Nelle ciotole rimanevano avanzi dei chicchi d’uva, estrema offerta di tremanti mani materne.

Boni s’accostò a quelle reliquie con profonda pietà umana.
Toccava finalmente alle sacre origini di Roma e le trovava quali le aveva presagite e sognate: umili e forti.

Esaminava con profonda attenzione un vaso d’argilla ancora umido e limaccioso.
Il suo sguardo chiaro e cangiante si oscurava nello scrutare su quella povera opera umana qualche indizio d’un passato misterioso e ridiventava di un azzurro pallido quando rinsaldava l’intuizione all’impronta rituale dei sacri oggetti ritrovati.

Durante una malattia, visse un fenomeno di deliquio che così descrisse: “ Sentivo di sfuggire dal corpo e d’innalzarmi sopra di esso, a cui ero avvinto solo da un invisibile filo.
Avevo coscienza della libertà estatica.
Alla fine con mio dolore, fui respinto indietro nell’esistenza.
Pensai che ci fosse altro lavoro da fare per me. La prossima volta che me ne sfuggirò via sarà per non più tornare”.
La sua tomba è posta sulla sommità del Palatino.