venerdì 21 settembre 2012

Appartenenza


Riporto un estratto dall’introduzione, scritta dall'autore stesso, del saggio “Il divino Giamblico” di Beniamino Massimo Di Dario, edito dalla casa editrice “Ar”, (prima edizione maggio 2012) del quale consiglio vivamente la lettura.

Benché personalmente riconosca legittimità metafisica al cristianesimo, assoluta veridicità al sostanziale messaggio rinnovatore di Amore, lo stesso, ritengo il Cattolicesimo una sapiente impostura, come eclissi malevola e quanto mai duratura sovrappostasi alla luminosa Rivelazione originaria, che segnò l’inevitabile rinnovamento dei tempi.
La Chiesa Cattolica appropriandosi indebitamente – manu militari – dell’antica eredità sapienziale se ne servì come pregiata stola con cui ammantare il mistero trinitario, frutto di una speculazione raffinata che è, in un certo senso, la depravazione della riflessione platonica e neoplatonica.
I teologi vaticani, stesero pazientemente sul loro telaio secolare i tessuti preziosi ma laceri dell’antica sapienza, e seppero abilmente ritesserla ai loro paramenti e cerimonie da farli sembrare come nuovi, eliminando al grido dell'eresia tanto i cristiani di altre confessioni quanto i seguaci della religione Avita.
L’abilità con cui la Chiesa di Roma ha consolidato il suo immenso potere, accrescendolo, di fatto, ben oltre l’eredità carpita all’impero dove maturò, rivela una disposizione dei suoi solerti e grigi ministri assolutamente diabolica.


Non è difficile, allora, intuire perché accostarsi a Giamblico oggi.
L’età attuale, ci sia lecito rilevarlo, prospetta non poche analogie con i tempi del Calcidese e con il Tardoantico in generale.
Dissolvimento, allontanamento dall’Origine, snaturamento caotico: l’intero esistente frana nell’indefinito.
Le “emozioni forti” scuotono le estremità di esistenze intorpidite: deriva verso il senza-forma, caduta.
Processo di caduta, a nostro avviso, spiraliforme. Sintesi di linearità e circolarità in cui ogni momento storico ha sopra di sé quello che gli è più affine. Così, nel processo discensionale, l’epoca attuale viene a collocarsi sulla medesima linea dell’età tardoantica ma, di conseguenza, su un piano ben più basso.

Non v’è chi possa negare che in Occidente, nel corso dei secoli così come oggi, non pochi – e qui risiede il fulcro della questione – abbiano sentito il dover ricercare le proprie radici nel mondo e nella tradizione classica. Corollario di tale percorso, sovente, è stato un crescente senso di estraneità alla religione venuta a predominare in questa parte occasiva del mondo (cattolicesimo Ndr).
Perché, e sia detto apertis verbis, coloro i quali della tradizione antica sono stati gli oppositori e gli antagonisti non possono ritenersi ad alcun titolo, come scritto in altra sede, né i depositari, né i successori.
Dunque per vie di rado coincidenti, con esiti e intenti incerti e assai diversi, in maniera spesso confusa e approssimativa, animi dalle nature più disparate si sono volti al pensiero, alla tradizione, ai miti e agli Dèi del mondo antico. Perché? Qualsiasi discorso sulla “non congenialità” della religiosità abramitica o sulla non praticabilità delle religioni d’Oriente, ammirate e proprio in quanto tali distanti, è destinato a cadere perché da ragione solo di una parte, ed esigua, del “fenomeno”.
Lo sguardo va invece appuntato sull’origine stessa di questa “chiamata”, sulla natura di vocazione.
La realtà, innegabile, ci dice dell’incessante incedere di anime e di menti che attraverso il corso dei secoli hanno avvertito come la propria natura fosse estranea al presente e come essa invece, rinvenisse la propria centratura nel mondo eclissatosi all’inizio dell’era cristiana.
Nel presente post-naufragio ogni Odisseo è destinato, senza il nostos verso l’Origine, a rimanere un Nessuno.
Cosa ravvisa il senso comune in questa pre-disposizione se non disperato anacronismo, romantica adesione a un passato idealizzato, vano tentativo di fuga all’indietro? Ma il senso comune è cristianocentrico, e si basa su un’idea del tempo – poi mutuata dallo scientismo – lineare, costruita su una meta prestabilita e un progresso indefinito da punto a punto.
L’animo umano, però, non è tenuto ad essere cristiano, né lo è l’intelletto.
Poste queste premesse, l’idea platonica che le anime si incarnino per cicli continui e sempre identici a sé stessi fino allo scioglimento dai legami della generazione è al medesimo tempo chiave di volta per spiegare il fatto e maglio per divellere il senso comune.
Esistono “anime antiche” – per prendere a prestito un’espressione dall’encomiabile trasposizione cinematografica del De Reditu operata da Sandro Bondì – ed esistono vie tracciate in illo tempore.
Animadverunt: queste anime avvertono – così come hanno avvertito e, possiamo dircene certi, continueranno ad avvertire – il diuturno richiamo ad andare nella direzione impressa.
L’impressione – e ancora una volta si ponga mente al senso latino dell’impressio – ricevuta all’inizio dei tempi risveglia il desiderio del ricongiungimento all’Origine, l’aspirazione alla conversione, platonicamente intesa, la nostalgia: algos per la ricerca del nostos.
Un anelito che né l’annottare incipiente dell’Età di Mezzo né la definitiva tenebra della modernità hanno avuto il potere di estinguere.
Ed è insieme un percorso che non può essere né inattuale, né morto, né anacronistico: esso non è stato né sarà, proprio perché è, sempre.
Il prima o poi non riguardano l’Anima.
Così, a coloro che si sentono vocati, la dottrina di Giamblico, se non può additare – perché già ardua ai suoi tempi – una via, può almeno essere viatico.